
BERTO, UOMO CHE GIOCA CON IL VENTO
Classe 1941, Berto Pellegrini è l’ultimo dei calzolai dagli infiniti mestieri e passioni. Un uomo che ha vissuto nella sua terra, contribuendo a fare crescere anche la sua comunità.
Siamo andati a cercarlo nella sua casetta di Arabba, dove lo poteva trovare facilmente chiunque avesse bisogno di una piccola riparazione, un tacco di scarpa, l’impianto di irrigazione, un meccanismo che non gira più…
- Berto Pellegrini
Nel giardino di casa, tra l’orto e le sue sculture segnavento, il signor Berto ci racconta la sua storia che in fondo è la storia di questa terra in cui è nato, cresciuto, per cui ha lavorato, inventato, costruito, e in cui è vissuto per tutta la vita al fianco della sua adorata Frida, che se lo mangia ancora con gli occhi, come fossero ancora quegli anni ‘50, quando da scolaretti si facevano su è giù a piedi o in slitta il tragitto per finire le elementari a Forte San Giovanni.
Un amore nato ad Arabba, cresciuto ad Arabba, consacrato da un matrimonio nel 1975 e due figli: un amore d’altri tempi che rimarrà per sempre ad Arabba.
Berto Pellegrini, classe 1941, l’ultimo dei calzolai come lo ricorderà la gente di qui, ma fino alla pensione anche stradino per ANAS, e prima ancora stagionale ai primi impianti di risalita, fabbro multitasking nella fucina della bisnonna, apprendista e poi guardiano del mulino di famiglia sul torrente Rio Boè, organista autodidatta in chiesa, apicoltore dal cuore tenero (con tutta questa pioggia, alle api in maggio gli portavo lo zucchero, perché non mi morissero”), artigiano e artista. Da lui venivano ancora oggi per una cerniera, una saldatura, due tacchi, una suola. Un tuttofare -dice lui- aggiustatutto, o quasi tutto, diremmo noi.
“Siamo rimasti in pochi a ricordare quell’Arabba”, ci aveva confessato con un po’ di malinconia.
Berto è quello che, orfano piccolissimo di entrambe i genitori, è venuto su con la zia, il bambino che è cresciuto attorno al primo mulino di Arabba di proprietà della bisnonna, Toratia la Rossa, e di cui ancora è stato guida e custode per i turisti, è l’adolescente sfollato in Val Badia durante la guerra, che ha visto il nonno, soldato austriaco, tornare dal campo di prigionia di Orvieto, e che lavorato per mesi con gli uomini del paese per ripulire la sua meravigliosa valle dalle macerie dei bombardamenti, è il giovanotto che, imparato in casa il mestiere di fabbro, ha custodito per anni i cimeli di un bombardiere americano precipitato sulla cima del Pizzac perché colpito da un caccia tedesco nel dicembre del 1945 (“una battaglia aerea proprio sopra le nostre teste”). E che a quei pezzi di metallo ha ridato vita trasformandoli poi nei suoi giochi-scultura: un omino che taglia i tronchi con la sega circolare; un calzolaio che batte sui tacchi, un contadino con la falce, un falegname con chiodi e martello, due omini che fanno girare un’elica. Sculture perfette, in ferro, verniciate, issate su alberi, balconi, palizzate, tutte intorno alla bella casa di una volta. “Se c’è vento lavorano bene – dice con malcelato orgoglio – con la tempesta Vaia sì che giravano, eccome se giravano”.
“Ho vissuto una storia che non c’è più”, dice con semplicità. Quella in cui “Arabba aveva due alberghi, il primo impianto di risalita nel 1956, quando ci si muoveva solo con carri e cavalli, si arava il campo con due mucche, dalla terra venivano su patate e orzo. Ci si trovava al bar dopo la messa per due giri di carte”.
Berto Pellegrini si è spento pochi mesi fa dopo la nostra intervista nell’affetto dei suoi cari e dell’intera comunità.
Testi a cura di Lucia Filippi
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